venerdì 29 novembre 2013

QUESTIONE DI RESPONSABILITA'

"se ti assumi la responsabilità di quello che stai facendo, del modo in cui produci i tuoi sintomi, del modo in cui produci la tua malattia, del modo in cui produci la tua esistenza - al momento stesso in cui entri in contatto con te stesso - allora ha inizio la crescita, ha inizio l'integrazione" 

(F.Perls)

E' davvero difficile questo passo, perchè siamo portati ad attribuire agli altri la causa della nostra sofferenza e le conseguenze delle nostre scelte: "se mia madre non fosse così.... se mio padre fosse stato diverso.... se quell'uomo e quella donna mi amasse davvero.... " allora io sarei.... io potrei.... 
per noi è più facile, perchè assumerci la responsabilità delle nostre scelte A VOLTE è doloroso, ma SEMPRE è liberante e mette in moto energie nuove e risorse inaspettate.
Scoprire le nostre responsabilità significa mettere nelle nostre mani la vita e la nostra storia.

mercoledì 27 novembre 2013

C'ERA UNA VOLTA...

Cari amici vi racconto una favola di Steiner, Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate.....

C'era una volta un luogo, molto, molto, molto tempo fa, dove vivevano delle persone felici. Fra queste persone felici ce n'erano due che si chiamavano Luca e Vera. Luca e Vera vivevano con i loro due figli Elisa e Marco.
Per poter comprendere quanto erano felici, dobbiamo spiegare come erano solite andare le cose in quel tempo e in quel luogo.
Vedete, in quei giorni felici, quando un bimbo nasceva trovava nella sua culla, posto vicino a dove appoggiava il suo pancino, un piccolo, soffice e caldo sacchetto morbido. E, quando il bambino infilava la sua manina nel sacchetto, poteva sempre estrarne un… "caldomorbido".
I caldomorbidi in quel tempo erano abbondantissimi e molto richiesti perché, in qualunque momento una persona ne sentisse il bisogno, poteva prenderne uno e subito si sentiva calda e morbida a lungo.


Se, per qualche motivo, la gente non avesse ricevuto con una certa regolarità dei caldomorbidi, avrebbe corso il rischio di contrarre una strana e rara malattia. Era una malattia che partiva dalla spina dorsale e che lentamente portava la persona ad incurvarsi, ad appassire e poi a morirne.
In quei giorni era molto facile procurarsi i caldomorbidi: se qualcuno li chiedeva, trovava sempre qualcun altro che li dava volentieri. Quando uno, cercando nel suo sacchetto, tirava fuori un caldomorbido, questo aveva la dimensione di un piccolo pugno di bambina ed un colore caldo e tenero. E subito, vedendo la luce del giorno, questo sorrideva e sbocciava in un grande e vellutato caldomorbido.
E quando era posto sulla spalla di una persona, o sulla testa, o sul petto, e veniva accarezzato, piano piano si scioglieva, entrava nella pelle e subito la persona si sentiva bene e per lungo tempo.

La gente a quel tempo si frequentava molto e si scambiava reciprocamente caldomorbidi. Naturalmente questi erano sempre gratis ed averne a sufficienza non era mai un problema.
Come dicevamo poc'anzi, con tutta questa abbondanza di caldomorbidi, in questo paese tutti erano felici e contenti, caldi e morbidi per la gran parte del tempo.
Ma, un brutto giorno, una strega cattiva che viveva da quelle parti si arrabbiò, perché, essendo tutti così felici e contenti, nessuno comprava le sue pozioni e i suoi unguenti.
La strega, che era molto intelligente, studiò un piano diabolico.
Una bella mattina di primavera, mentre Vera giocava serena in un prato con i bambini, avvicinò Luca e gli sussurrò all'orecchio:
"Guarda Luca, guarda Vera come sta sprecando tutti i caldomorbidi che ha, dandoli a Elisa. Sai, se Elisa se li prende tutti, può darsi che, a lungo andare, non ne rimangano più per te".
Luca rimase a lungo soprappensiero. Poi si voltò verso la strega e disse: "Intendi dire che può succedere di non trovare più caldomorbidi nel nostro sacchetto tutte le volte che li cercheremo?".
E la strega rispose: "Proprio così. Quando saranno finiti, saranno finiti. E non ne avrete assolutamente più".
Detto questo volò via, sghignazzando fra sé.

Luca fu molto colpito da quanto aveva detto la strega e da quel momento cominciò ad osservare e a ricordare tutti i momenti in cui Vera dava caldomorbidi a qualcun altro.
Di lì in poi divenne timoroso e turbato, perché gli piacevano i caldomorbidi di Vera e non voleva proprio rimanere senza. E pensava pure che Vera non facesse una cosa buona a dare tutti quei caldomorbidi ai bambini e alle altre persone.
Cosi cominciò ad intristirsi tutte le volte che vedeva Vera elargire un caldomorbido a qualcun altro. E poiché Vera gli voleva molto bene, essa smise dì offrire così spesso caldomorbidi agli altri, riservandoli invece per lui.
I bambini, vedendo questo, cominciarono naturalmente a pensare che fosse una cattiva cosa dar via caldomorbidi a chiunque e in qualsiasi momento venissero richiesti o si desiderasse farlo e, piano piano, senza quasi nemmeno accorgersene, diventarono sempre più timorosi di perdere qualcosa.
Così anch'essi divennero più esigenti. Tennero d'occhio i loro genitori e, quando vedevano che uno di loro donava un caldomorbido all'altro, anche loro impararono a intristirsi. Anche i loro genitori se ne scambiavano sempre di meno e di nascosto, perché così pensavano che non li avrebbero fatti soffrire.
Sappiamo bene come sono contagiosi i timori. Infatti, ben presto queste paure si sparsero in tutto il paese e sempre meno si scambiarono caldomorbidi.
Nonostante ciò le persone potevano comunque sempre trovare un caldomorbido nel loro sacchetto tutte le volte che lo cercavano, ma essi cominciarono a estrarne sempre meno, diventando nel contempo sempre più avari.
Presto la gente cominciò a sentire mancanza di caldomorbidi e, di conseguenza, a sentire meno caldo e meno morbido. Poi qualcuno di loro cominciò ad incurvarsi e ad appassire e talvolta persino a morire. Quella malattia, dovuta alla mancanza dì caldomorbidi, che prima della venuta della strega era molto rara, ora colpiva sempre più spesso.

E sempre di più la gente andava ora dalla strega per comprare pozioni e unguenti, ma, nonostante ciò, non aveva l'aria di star meglio.
Orbene, la situazione stava diventando di giorno in giorno più seria. A pensarci bene la strega cattiva in realtà non desiderava che la gente morisse (infatti pare che i morti non comprino balsami e pozioni), così cominciò a studiare un nuovo piano. Fece distribuire gratuitamente a ciascuno un sacchetto in tutto simile a quello dei caldomorbidi, ma questo era freddo mentre l'altro era caldo. Dentro il sacchetto della strega infatti c'erano i "freddoruvidi". Questi freddoruvidi non facevano sentire la gente calda e morbida ma fredda e scontrosa. Comunque fosse, i freddoruvidi un effetto ce l'avevano: impedivano infatti che la schiena della gente si incurvasse più di tanto e, anche se sgradevoli, servivano a tenere in vita gli abitanti di quel paese che una volta era stato felice.
Così tutte le volte che qualcuno diceva: "Desidero un caldomorbido", la gente, arrabbiata e spaventata per il loro rarefarsi, rispondeva: "Non ti posso dare un caldomorbido, vuoi un freddoruvido?".

E, a volte, capitava persino che due persone a passeggio insieme pensavano che avrebbero potuto scambiarsi dei caldomorbidi, ma una o l'altra delle due, aspettando che fosse l'altra ad offrirglielo, finiva poi per cambiare idea, e si scambiavano dei freddoruvidi.
Stando così le cose, ormai sempre meno gente moriva di quella malattia, ma un sacco di persone erano sempre infelici e sentivano molto freddo e molto ruvido.
E' inutile dire che questo fu un periodo d'oro per gli affari della strega.

La situazione peggiorava ogni giorno. I caldomorbidi, che una volta erano disponibili come l'aria, divennero merce di grande valore e questo fece sì che la gente fosse disposta ad ogni sorta di cose pur di averne. In certi casi i caldomorbidi venivano estorti con l'inganno, in altri con violenza e, quando ciò avveniva, succedeva una cosa strana: questi non sorridevano più, sbocciavano poco e diventavano scuri.
Prima che la strega facesse la sua apparizione la gente era solita trovarsi in gruppi di tre o di quattro o anche di cinque persone senza minimamente preoccuparsi di chi fosse a dare i caldomorbidi. Dopo la venuta della strega la gente cominciò a tenere per sé tutti i propri caldomorbidi, e a darli al massimo ad un'altra persona. Qualche volta succedeva che quelli che davano a persone esterne dei caldomorbidi si sentivano in colpa perché pensavano che il proprio partner molto probabilmente ne sarebbe stato dispiaciuto e geloso. E quelli che non avevano trovato un partner sufficientemente generoso andavano a comprare i loro caldomorbidi e questo gli costava molte ore di lavoro per racimolare il denaro.
Un altro fatto sorprendente ancora succedeva. Alcune persone prendevano i freddoruvidi, che si trovavano facilmente e gratuitamente, li camuffavano ad arte con un'apparenza piacevole e morbida e li spacciavano per caldomorbidi. Questi caldomorbidi contraffatti venivano chiamati caldomorbidi di plastica e finirono per procurare guai ulteriori.
Per esempio, quando due persone si volevano scambiare reciprocamente dei caldomorbidi pensavano, è ovvio, che si sarebbero sentiti bene, ma, in realtà, nulla cambiava e continuavano a sentirsi come prima e forse anche un pochino peggio. Ma, poiché pensavano in buona fede di essersi scambiati dei caldomorbidi genuini, rimanevano molto confusi e disorientati, non comprendendo che il loro freddo e le loro sensazioni sgradevoli erano in realtà il risultato dell'essersi scambiati caldomorbidi di plastica.
Così la situazione si aggravava di giorno in giorno.

I caldomorbidi erano sempre più rari e, a volte, anche guardati con sospetto, perché si confondevano con quelli di plastica, contraffatti. I freddoruvidi erano abbondanti e sgradevoli e tutti pareva volessero regalarli agli altri. C'era molta tristezza, paura e diffidenza e tutto questo era iniziato con la venuta della strega, che aveva convinto le persone che, a forza di scambiarsi caldomorbidi, un giorno non lontano avrebbe avuto la sorpresa di scoprire che erano finiti.
Passò ancora del tempo e, un giorno, una donna florida e graziosa, nata sotto il segno dell'Acquario, giunse in quel paese sfortunato, portando il suo sorriso limpido e cordiale.
Non aveva mai sentito parlare della strega cattiva e non nutriva alcun timore che i suoi caldomorbidi finissero. Li dava liberamente, anche quando non erano richiesti. Molti la disapprovavano perché pensavano che fosse sconveniente per i bambini vedere queste cose e temevano per la loro educazione
Ma essa ai bambini piacque molto, tanto che la circondavano in ogni momento. E anche loro cominciarono a provare gusto nel dare agli altri caldomorbidi quando gliene veniva voglia. I benpensanti corsero ben presto ai ripari facendo approvare una legge per proteggere i bambini da un uso spregiudicato di caldomorbidi. Secondo questa legge era un crimine punibile dare caldomorbidi ad altri che non alle persone per cui si avesse avuto una licenza. E, per maggiore garanzia, queste licenze di darsi caldomorbidi si potevano avere per una sola persona e spesso duravano tutta la vita.
Molti bambini comunque fecero finta di non conoscere la legge e, in barba a questa, continuarono a dare ad altri caldomorbidi quando ne avevano voglia o quando qualcuno glieli chiedeva. E, poiché c'erano molti, molti bambini - così tanti forse quanto i benpensanti - cominciò ad apparire chiaro che la cosa era molto difficile da contenere.


A questo punto sarebbe interessante sapere come andò a finire. Riuscì la forza della legge e dell'ordine a fermare i bambini? Oppure furono invece i benpensanti a scendere a patti? E Luca e Vera, ricordando i giorni felici dove non c'era limite di caldomorbidi, ricominciarono a donarli ancora liberamente?
Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate.....

PREGHIERA DELLA GESTALT


"Io sono io. Tu sei tu.
Io non sono al mondo per soddisfare le tue aspettative.
Tu non sei al mondo per soddisfare le mie aspettative.
Io faccio la mia cosa. Tu fai la tua cosa.
Se ci incontreremo sarà bellissimo;
altrimenti non ci sarà stato niente da fare."
(Fritz Perls)






lunedì 25 novembre 2013

MA CHE STRESS...!?!


La parola stress è ormai diffusissima nei nostri discorsi ma che significa realmente e cos’è lo stress?
Il termine deriva dalla parola latina strictus ( stretto, serrato, compresso) e definisce la modalità di risposta dell’organismo a degli stimoli di natura fisica o psichica che interferiscono con l’equilibrio dell’organismo. Lo Stress deriva dalla teoria dell’OMEOSTASI che indica la capacità di autoregolazione degli esseri viventi, importantissima per mantenere costante l'ambiente interno, nonostante le variazioni dell'ambiente esterno (concetto di equilibrio dinamico).
Seley definisce in questo modo lo stress:
Lo stress è il processo attraverso il quale l’organismo si attiva in risposta ad uno stimolo ambientale o ad uno stimolo interno all’organismo stesso, e si prepara a fronteggiarlo in qualche modo”.
Da questa definizione non si evince nessuna accezione negativa del termine stress, quale invece comunemente lo intendiamo. 
Parliamo invece di stress con valenza negativa quando questa attivazione non ha successo, ossia quando questa attivazione non è in grado di rimuovere lo stimolo, o gestirlo, per poi tornare ad uno stato di quiete. In questi casi Seley parla di esaurimento, da cui il concetto di esaurimento nervoso.
Per questo motivo è importante avere strategie che ci aiutino ad attivare al meglio la nostra capacità di gestire gli agenti stressanti.


Agenti stressanti (gli Stressors) diversi provocano sempre la stessa reazione biologica che Seley definisce come  Sindrome Generale di Adattamento (S.G.A.)
Ogni stressor che perturba l'omeostasi dell'organismo richiama immediatamente delle reazioni regolative neuropsichiche, emotive, locomotorie, ormonali e immunologiche. Infatti si stanno moltiplicando le patologie legate ad uno stile di vita "stressante".


Le cause maggiore di stimoli stressanti non sono legate al lavoro e ai vari impegni, ma anche alle nostre relazioni, per cui imparare a gestire una vita relazionale sana, ci aiuta notevolmente ad eliminare le conseguenze negative dello stress.




Secondo Seley la SGA si articola in tre fasi:
  •     * La prima fase detta "allarme" attivata dalla presenza dello stimolo ambientale (positivo o negativo) innesca la risposta primordiale alla sopravvivenza, sia a livello fisico (aumento della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, della glicemia, del tono muscolare, del metabolismo e di alcuni neurotrasmettitori),sia a livello psico emotivo con l'aumento dello stato di allerta e di "tensione emotiva".
  •     * La seconda fase detta "resistenza", è di estrema importanza, poiché mette in atto un complesso programma, sia biologico che comportamentale, che sostiene la risposta agli stimoli ambientali, con l'attivazione di una complessa risposta ormonale che ci aiuta inizialmente a resistere all'interazione con gli stimoli ambientali.
  •     * A questo punto se non avviene la CONCLUSIONE (superato lo stress, si torna ad un periodo di calma) si passa ad una terza fase detta "esaurimento". Questa rappresenta, purtroppo, il fallimento dei tentativi attuati dai meccanismi difensivi per realizzare una risposta adeguata agli stimoli ambientali. Questa fase determina inconsapevoli alterazioni permanenti. L'organismo perde la capacità di adattarsi in modo funzionale agli stimoli ambientali, mantenendo una risposta ormai inadeguata che predispone allo sviluppo di malattie anche croniche, che possono interessare sia la sfera fisica che psicologica.


Il modo che ognuno di noi trova per fronteggiare una situazione di stress è definito da Lazarus e Folkman, “coping”.  Quindi il COPING è l’insieme delle strategie cognitive e comportamentali messe in atto dalla persona per fronteggiare una situazione di stress. Il coping può essere interpretato come uno stile o un tratto tipico della persona. Infatti i tratti della personalità sono i modi di percepire, rapportarsi e pensare nei confronti dell’ambiente e di se stessi.

sabato 23 novembre 2013

EMOZIONI, UN MONDO SCONOSCIUTO

Le emozioni svolgono un ruolo essenziale nella nostra vita. Etimologicamente il termine EMOZIONE deriva dal latino moveo e dal prefisso ex quindi movimento da, esse ci spingono a muoverci. Le emozioni, quindi, ci spingono ad agire; sono piani d’azione per gestire, in tempo reale, le emergenze della vita. Esse hanno una funzione adattiva, ad esempio: la paura ci spinge a fuggire o a reagire quando percepiamo un pericolo, a volte ci salva; la rabbia ci spinge all’attacco e a difendere i nostri bisogni, la gioia e l'amore ci aiutano ad innamorarci…
Ogni emozione nasce quindi in relaizone ad uno stimolo e in modo particolare, in base al significato che attribuiamo allo stesso

L’emozione è una reazione improvvisa e interessa tutto l’organismo, per cui interessa:

  • componenti fisiologiche (il corpo),
  • cognitive (la mente),
  • comportamentali (le azioni).

Daniel Goleman parla del mondo emozionale definendolo come un secondo tipo di intelligenza perchè parte da un'altra parte del nostro cervello. L'intelligenza razionale è collegata all’attività della neo-corteccia (rappresenta la modalità di comprensione cosciente, consapevole, frutto della riflessione, ponderata) quella emotiva, più antica, è legata all’amigdala (è più rapida nelle reazioni, prima l’emozione e poi il pensiero). Con una mente pensiamo con l’altra sentiamo.
Le 2 menti funzionano diversamente. Nella mente emozionale i problemi non sono analizzati analiticamente, ma c’è una logica associativa, si serve di ricordi, sensazioni, impressioni…
Il nostro modo di comportarci nella vita dipende da entrambe.
Quando parliamo di intelligenza emotiva di cosa parliamo? Della capacità di motivare se stessi e di continuare nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, si tratta di controllare gli impulsi e rimandare le gratificazioni, di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare, si tratta della capacità di essere empatici e di sperare…
Possiamo essere dei grandi scienziati, aver sviluppato molto la nostra mente razionale, ma questo non significa che abbiamo delle buone competenze relazionali, queste infatti, sono legate alla nostra intelligenza emotiva.
Un buon quoziente di Intelligenza Emotiva ci permette di:

  1. Avere consapevolezza delle proprie emozioni: la capacità cioè di riconoscere e nominare un'emozione nel momento in cui si presenta (so cosa sento e provo).
  2. Gestione delle nostre emozioni : capacità di esprimerle in modo appropriato e di decidere come e quando senza lasciarci sopraffare o schiacciare. (scelgo come viverle) 
  3. Motivazione di se stessi: capacità di dominare le emozioni per raggiungere un obiettivo, cioè la capacità di ritardare la gratificazione. (scelgo quando viverle)
  4. Riconoscimento delle emozioni altrui: empatia.
  5. Gestione delle relazioni: chi sa gestire le proprie emozioni si relazione con più facilità ed è capace di intimità e stabilità.
Purtroppo non siamo educati al mondo emozionale, anzi, spesso i nostri genitori, inconsapevolmente, ci hanno diseducato proibendoci di provare alcune emozioni dicendoci: "non ti arrabbiare, non piangere, sii umile, ecc...." per questo un percorso di counseling potrebbe aiutare a riappropriarci di tutto il nostro patrimonio emozionale e imparare a gestirlo al meglio.



Qual’è la differenza fra sentimenti ed emozioni?

Il senso (la finalità) più evidente delle emozioni appare quello di stimolare un’adeguata reazione comportamentale, ad esempio: percepisco un pericolo, provo paura, scappo, chiedo aiuto o mi difendo; un evento mi apre nuove ed interessanti opportunità, provo gioia e corro a condividerla con i miei amici più cari. 

Mentre le emozioni rispondono in modo veloce agli eventi della vita, i sentimenti accompagnano in maniera più duratura gli investimenti affettivi che operiamo intorno a noi. Chiamiamo, infatti, sentimento ciò che proviamo verso un "oggetto" (persona, animale, cosa o situazione) che assuma un valore relativamente stabile per noi, o meglio, in relazione ai nostri bisogni e desideri. Sono sentimenti l’amore, l’innamoramento, l’odio, l’invidia, la gelosia. Quando un sentimento invade prepotentemente la nostra vita parliamo di una passione.

ROMANTICISMO? NO GRAZIE!

Parlando di romanticismo, non ci riferiamo alle tenerezze e alle attenzioni che ci si scambiano in coppia, ma ad un vero e proprio movimento culturale e sociale sviluppatosi negli anni ’60, che ha portato la coppia a centrarsi sull’amore e sulla relazione dei due partener. Ma se questo è vero, come mai ci sono così tante coppie che falliscono? Come mai si sono incrementati in modo esponenziale il divorzio e relazioni di coppia molto brevi che non portano a un progetto condiviso, ma che spesso lasciano più ferite che soddisfazioni?

L’ideale neoromantico dell’amore si è quindi sviluppato in opposizione alla concezione della coppia basata solo su forme rigide ed esteriori, e alimentata esclusivamente dal bisogno di sopravvivenza, dell’allevamento dei figli e della buona fama, e che spesso coincideva con un sacrificio enorme soprattutto da parte delle donne. 
Una reazione certamente comprensibile ma che porta a considerare l’esperienza emotiva amorosa come l’assoluto relazionale, per cui fa poggiare un rapporto di coppia su qualcosa di momentaneo e poco realistico, anche perché se andiamo a considerare il significato e la qualità di questo amore, che tiene le coppie contemporanee, ci accorgiamo di ritrovare tanti tipi di “amore”.
L’ideale amoroso odierno tende a considerare vero amore, solo l’esperienza forte e appagante che i partener sperimentano nel periodo dell’innamoramento, e si ha la pretesa che quest’intensità possa durare per tutta la vita della coppia, per cui, se svanisce, automaticamente finisce anche la coppia. Durante il periodo dell’innamoramento, infatti, è possibile sperimentare la pienezza dell’incontro amoroso in tutto il suo fascino e la sua carica emotiva.
Nella fase dell’innamoramento la coppia è concentrata esclusivamente su se stessa e nell’apice della passionalità e della novità i due partner iniziano una danza di conoscenza e di complicità carica di potenzialità, ma che ancora non ha la possibilità di esprimersi. In questo stadio sono presenti tanti elementi illusori, proprio perché si tende a idealizzare la persona amata concentrandosi solo sugli aspetti che ci attraggono e che, in un certo modo, rispondono ai nostri bisogni più profondi di considerazione, unicità, riconoscimento e accettazione. L’elemento nevrotico comune, presente nell’innamoramento, è la tendenza alla fusione per cui le diversità si assottigliano e rimangono nello sfondo. L’innamoramento ripropone la fusione infantile con la madre e questo è evidente anche nei gesti, nei nomignoli, nel tono della voce che diventa più dolce, negli avvinghiamenti e nelle reazioni dei partner. È come se si ritornasse bambini, per cui si sperimenta una nuova energia, una nuova felicità capace di portare a gesti folli e irresponsabili. I confini tra “io” e “tu” sono molto sfumati e grazie a quest’unità ritrovata i problemi personali sembrano sparire.
Questo genera anche la dipendenza dei due, che non riescono a sopportare la distanza e nello stesso tempo permette di creare uno spazio in cui pian piano cresce l’intimità. Infatti, se durante il corteggiamento si mettono in campo solo i lati migliori e le proprie qualità, durante l’innamoramento si inizia a condividere anche la propria vulnerabilità parlando delle proprie paure e dei dolori, cominciando a raccontare le proprie esperienze negative e il proprio vissuto. In questo senso, ciascun membro inizia ad essere per l’altro un rifugio emotivo in cui si ha l’illusione di trovare, in modo incondizionato, protezione nei momenti di ansia, pericolo, stress e paura. Nello stesso tempo iniziano già a comparire gli stili relazionali propri di ciascuno, per cui ogni membro tende a riproporre la stessa modalità che ha vissuto nella simbiosi materna. Anche se tutto questo è vero, sarebbe un grave errore ridurre l’innamoramento all’analisi degli aspetti illusori e nevrotici, come fanno spesso alcuni terapeuti, perché si priverebbe la relazione delle sue migliori potenzialità, giacché in questa fase si vede realizzata, in modo magico, la relazione che sarà costruita con fatica nel corso del tempo. Rispetto a quello che abbiamo detto, è evidente il pericolo che l’altro si rivesta del ruolo del salvatore e che gli si dia la responsabilità di tappare i “buchi” affettivi, ma nello stesso tempo contiene la possibilità di dare una direzione alla propria vita, per cui si tradurrebbe in un progetto fecondo e realizzabile. L’innamoramento risulterebbe pertanto, come una visione del futuro, una promessa di pienezza, una carica fortissima a cui attingere anche nei momenti critici che verranno in seguito, per cui è importante che si viva pienamente con tutte le sue contraddizioni e nevrosi.
Se è vero che la fase dell’innamoramento è essenziale per la costruzione dell’intimità e della relazione all’interno della coppia, è altrettanto vero il pericolo di identificare l’amore solo con questo tipo di relazione. Questo è l’errore più grande dell’ideologia neoromantica[2] e che in questo capitolo cercheremo di smascherare.
 “Siamo una sola persona”. L’amore come simbiosi
Frasi ritenute romantiche, importanti e segno di un grande amore dalla cultura contemporanea, come “tu sei tutto per me”, “siamo una persona sola” “senza di te non posso vivere” o atteggiamenti ritenuti romantici, come quello di avere un profilo facebook con il nome di entrambi, invece di quello individuale, lo scambio ininterrotto di sms, l’impedimento da parte di uno dei partner di frequentare ambienti o coltivare interessi non condivisi, e così via…, nascondono invece le nevrosi e i pericoli più grandi per una relazione.
In queste frasi, infatti, e nell’ideale neoromantico, si nasconde la concezione dell’amore come simbiosi. «Partendo da questo desiderio di unità, concetti come «essere autonomi», «essere separati», «distanziati» appaiono l’esatto contrario dell’amore e, anzi, sono vissuti come minaccia al rapporto».[3] Nella simbiosi si matura la convinzione che si può essere completi solo nella coppia, per tanto si evitano gli scontri necessari per definire i confini tra l’“io” e il “tu”, e quando si arriva al conflitto, la pace deve essere ristabilita il prima possibile, perché è percepito come un pericolo alla rottura della simbiosi. L’assoluto diventa l’armonia da preservare ad ogni costo, ma questo modello trasforma la relazione in una prigione, anche se può apparire con le sbarre d’oro. Ad un certo punto però la sessualità inizia a dare segnali inequivocabili diventando meno interessante e appagante, proprio perché i due hanno smesso di essere due individui distinti e l’affievolirsi della passionalità e dell’eros è una protesta inconscia contro la simbiosi. L’individualità di ciascuno cerca in tutti i modi di riemergere, per tanto potrebbero iniziare a comparire sintomi fisici apparentemente inspiegabili come emicranie, allergie, disturbi di stomaco o depressioni. Questo accade perché, come afferma F. Perls, «l’organismo sa tutto. Noi sappiamo pochissimo»[4].
Come abbiamo accennato prima, nella fase simbiotica dell’innamoramento si ripropone la relazione del bambino con la madre, quando il suo “Io” non è ancora definito in maniera chiara e quando il bambino percepisce la madre come una parte di se e come qualcuno che è a sua completa disposizione. «Naturalmente ciò non dipende solo dalla madre. Il modo in cui il padre la sostiene, lasciando che essa sia a completa disposizione del bambino, ma anche staccandolo da lei per mostrargli il mondo, per poi riportaglielo ogni volta che lo desideri, è decisivo per il superamento di questa fondamentale fase della vita»[5]. A. Ferrara, portando il contributo della Gestalt descrive il padre e la madre come due simboli di bisogni fondamentali del bambino, attribuendo all’uno il principio di evoluzione, e all’altro quello di sopravvivenza. Per cui il bambino ha bisogno di integrare «entrambi i modelli genitoriali. […] Il bambino ha bisogno di integrare il padre, simbolo di affermazione e assertività, che gli insegna i valori e lo guida verso la propria realizzazione. Il padre rappresenta la polarità della madre che invece offre il dolce rilassamento degli abbracci fusionali e che insegna lo stare e il lasciarsi perdere nella contemplazione»[6]. Se in questo processo il bambino sarà spinto troppo presto all’autonomia, senza aver prima sperimentato un rifugio stabile e sicuro con la madre, o al contrario sarà tenuto troppo tempo nella simbiosi e nella dipendenza dalla madre, senza sperimentare la sua unicità, e quindi, senza integrare in se, le due figure genitoriali, crescerà con un deficit relazionale che tenderà a compensare nella vita adulta. Pertanto l’adulto cercherà, inconsciamente, un partner che possa restituirgli quello che non ha avuto a sufficienza nella sua infanzia.
Anche in questo caso sussiste  un’ambivalenza, come abbiamo già fatto notare, in quanto la fase simbiotica dell’innamoramento potrebbe realmente aiutare a chiudere una gestalt antica ancora aperta e quindi, guarire qualche ferita affettiva del passato. Se questo avviene però, la relazione si aprirà ad altre fasi, come quella successiva di differenziazione e crescerà nella relazione. Quando invece, rimane una condizione duratura e costante, porterà soltanto ad acuire una  fame di affetto e di sicurezza che provocherà la morte della coppia e dell’individualità e conseguentemente la ricerca continua e sempre nuova di un'altra persona che dovrà colmare i suoi deficit.
L’ideologia neoromantica oltre a proporre l’amore come simbiosi, tende a considerare il partner come il mezzo della propria realizzazione, per cui l’amore viene confuso con l’idea che l’altra persona deve farmi sentire appagato e realizzato. Anche qui ci troviamo davanti al protrarsi di un’esperienza normale e importante che si vive nell’innamoramento, quando ci si sente improvvisamente più attraenti, più forti e sicuri di sé, perché il riconoscimento del partner diventa un nutrimento fondamentale per la nostra autostima. Quando il primo partner inizia a sentire che l’altro/a non riesce a colmare il bisogno di realizzazione «comincia a rivendicare i suoi bisogni a voce alta e a lottare per soddisfarli. L’altro si sente minacciato, come se qualcosa gli venisse sottratto, e risponde a questi attacchi difendendosi e rinfacciando a sua volta»[7], perché in questa idea di amore non possono coincidere la realizzazione autonoma di entrambi e l’amore stesso, ma uno dev’essere a servizio della realizzazione dell’altro, in quanto questi, è il mezzo attraverso il quale io mi sento realizzato. Seguono una serie crescente di litigi che cercano di rimettere l’altro nel ruolo del padre o della madre, perché alla base potrebbe esserci la ricerca di un apprezzamento genitoriale deficitario. Infatti se ci fermiamo a guardare oltre la corazza di queste persone «vediamo dei piccoli bambini abbandonati che urlano cercando di attirare l’attenzione della madre, e poiché questa gliela rifiuta tentano di ottenerla con la forza.»[8]
Ma è davvero inconciliabile l’amore con l’autorealizzazione? Non è vero che l’Io trova in essa il suo pieno compimento? Anche in questo caso possiamo vedere che l’errore dell’ideologia neoromantica è quello di assolutizzare un aspetto dell’amore e renderlo una pretesa più che un cammino percorribile nell’intimità e nello scambio con l’altro/a. Effettivamente una persona trova la sua pienezza nell’amore, ma soprattutto in quello che è capace di dare e non di pretendere e rivendicare.
La fame di riconoscimento fa centrare l’individuo su se stesso e sui propri bisogni senza guardare quelli del partner, l’amore invece è un flusso costante che va dai propri bisogni a quelli dell’altro, porta cioè a donarsi all’amato senza dimenticarsi di sé. L’amore diventa maturo proprio quando, nell’intimità, si abbandona all’altro nella dinamica del dono. Questo presuppone una consapevolezza di sé e dei propri bisogni, altrimenti si potrebbe confondere con la negazione di sé e alla sottomissione, che sarebbe un altro modo nevrotico di intendere l’amore. Ecco perché dicevamo che questa realizzazione di se nell’amore costituisce il cammino della coppia e non il punto di arrivo, infatti il primo passo verso il dono di se è la consapevolezza che l’altro sia diverso da me, sia altro.
            Questa “completezza” è un’esperienza normale nell’innamoramento, ma diventa nevrotica se resiste a lungo nella coppia e si fossilizza come la pretesa che l’altro  sazi la mia fame relazionale. Questo pericolo diventa molto comune in questa società che propone stili di vita frenetici in cui non c’è spazio se non per relazioni immediate e superficiali. Dal lavoro, al condominio e alla politica ogni giorno siamo bombardati di relazioni frustranti e spesso solo di facciata, per cui la coppia diventa l’unica isola in cui si pretende di essere accolti e soddisfatti nei bisogni affettivi. Per cui, «gli uomini cercano rifugio in cure di tipo materno o nella sessualità (e la seconda spesso è solo un’altra forma della prima), e le donne in conversazioni sentimentali e intime o in tenerezze senza secondi fini. Ognuno dei due chiede all’altro di colmare una lacuna […]. Si instaura quindi il modello di coppia formata da due bambini «affamati». »[9] La conseguenza di ciò porta o alla rassegnazione nei confronti del partner, per cui la relazione diventa sempre più piatta e stanca e ci si impegna nel lavoro, sui doveri, lo si compensa con il cibo, la televisione, lo shopping e simili; oppure si cercano relazioni che compensino il bisogno di vicinanza. Per cui si moltiplicano i tradimenti o se si hanno figli, spesso, soprattutto da parte delle donne, questi diventano segretamente, i sostituti dei mariti. Il moltiplicarsi di relazioni fuori dalla coppia e triangolazioni non dipende, per la maggior parte delle volte, dalla superficialità della relazione, ma soprattutto dal fatto che si è trasferito sul partner una pretesa impossibile, che restando insoddisfatta spinge alla compensazione.
È una pretesa impossibile, proprio perché non esiste una sola persona capace di soddisfare il nostro bisogno di relazione e di vicinanza, per questo è importantissimo che la coppia, dopo un certo tempo, si apra ad altri rapporti personali, sia come coppia, sia come singoli. Per cui costruire una rete di amicizie, anche profonde, diventa l’antidoto alla pretesa assoluta e al bisogno relazionale inappagato. L’ideale contemporaneo di amore invece, vede il bisogno di altre relazioni come una minaccia alla coppia o lo legge come la fine della stessa, pertanto o la coppia termina la relazione o continua e si circonda di tradimenti e compensazioni di ogni sorta.
L’innamoramento è un periodo importantissimo e ricchissimo, ma pur sempre limitato, infatti dopo questa fase in cui la simbiosi è l’elemento più caratterizzante, ma è anche la base su cui si costruisce una futura intimità, è necessario continuare il cammino della coppia.
Ma se l’innamoramento ripropone la simbiosi del bambino con la madre, possiamo paragonare le fasi ulteriori dell’evoluzione della coppia, ad altrettanti stadi dello sviluppo della persona? In realtà a questa domanda hanno risposto E. Bader e P. Pearson[10]  che, riprendendo il modello evolutivo della psicoanalista Margaret Mahler, individuano 5 fasi in cui si organizza lo sviluppo di una relazione di coppia.
La coppia quindi, come il bambino dai zero ai tre anni, attraversa inizialmente la fase della simbiosi, che abbiamo già chiamato innamoramento e lo abbiamo argomentato ampiamente. Nel cammino di una coppia segue una fase di differenziazione, durante la quale ciascun partner inizia a cogliere le differenze rispetto all’altro; riemergono i bisogni personali e si ristabiliscono i confini, per cui emergono gli stili relazionali di ciascuno. È come se si tagliasse il cordone ombellicale.  Successivamente la coppia vive un periodo di sperimentazione. Questa fase è molto delicata perché i partner hanno il bisogno di sentirsi come individui e sperimentarsi e confrontarsi con l’esterno. Emerge il desiderio dell’autonomia e l’altro può essere percepito come limitante. Ma se la relazione di coppia resiste a questa tempesta e l’affronta creando intimità e sostenendosi in questi bisogni, si giungerà al desiderio di mettere in dialogo due individualità e condividere maggiore intimità. È questa la fase che chiamiamo di riavvicinamento. Questo è il momento in cui ciascun partener sente la possibilità di mostrare se stesso senza il timore, anche nella vulnerabilità. Dopo tutto questo cammino, si giunge finalmente alla mutua interdipendenza, nella quale si raggiunge la piena intesa, attraverso la condivisione dei valori, che stabilisce autonomia e interdipendenza.
Non sempre l’evoluzione riesce a completarsi, e questo significa l’insorgenza di problematiche più o meno dolorose, o la rottura del rapporto. Se entrambi i partner non progrediscono attraverso queste fasi evolutive, si genereranno conflitti e si avranno blocchi evolutivi, che spesso possono essere la riproposizione nella coppia dei blocchi personali di ciascun individuo.






[1] H. JELLOUSCHEK, L’arte di vivere in coppia, Edizioni Scientifiche Ma.Gi. srl, 2003, Roma, p.15
[2] Continueremo a chiamare così l’ideale d’amore della cultura contemporanea, utilizzando  l’accezione di H. JELLOUSCHEK, op. cit.
[3] Ibidem, p.29
[4] F.S.PERLS, La terapia Gestaltica parola per parola, ed. Astrolabio, 1980, Roma, p.30
[5] H. JELLOUSCHEK, op. cit. p.33
[6] A. FERRARA, Gestalt integrate: contatto, conflitto, adattamento complesso, in “Psicoterapia della Gestalt. Per una scienza dell’esperienza, Atti del IV Congresso Internazionale, ed. Centro Studi Psicosomatica, 1991, Siena, p.167
[7] H. JELLOUSCHEK, op. cit. p.49
[8] Ibidem, p.50
[9] Ibidem, op. cit., p. 58
[10] E. BADER E P. PEARSON, In Quest of the Mytical Mate. A developmental approach to diagnosis and treatment in couples therapy, Psychology Press, 1988.

A CHE GIOCO GIOCHIAMO?

Nelle relazioni di coppia e in generale, nella nostra vita relazionale, spesso ci troviamo a vivere schemi ricorrenti che sembrano predestinare il finale, per quanto vorremmo che andasse diversamente; è come se i nostri rapporti rispondano a schemi predefiniti e che portino sempre alla stessa conclusione.

Eric Berne, il padre dell’Analisi Transazionale,  ha definito questa dinamica con un termine preciso: GIOCO. Non per l’aspetto ludico, ma per il fatto che in queste situazioni ogni partecipante riveste un ruolo preciso, sta a delle regole, o manovre, precise e tende a raggiungere sempre lo stesso scopo.  Egli afferma che « Si gioca, dunque, nel tentativo di vedere soddisfatte le proprie necessità sociali fondamentali ma, poiché chi gioca rimette in atto quegli schemi disfunzionali relazionali appresi nel corso del proprio sviluppo infantile, tali bisogni, così come nel passato, rimangono insoddisfatti[1]
         È facile capire che si sta giocando, quando ci si accorge che le varie relazioni di coppia finiscono tutte allo stesso modo, quando ci si innamora sempre della stessa tipologia di persone, quando i litigi continuano sempre seguendo lo stesso clichè, quando gestiamo i conflitti sempre nello stesso modo e alla fine ci lasciano sempre la stessa emozione, e così via… tutto questo perché i giochi sono ripetitivi.
La persona ricorre al gioco quando non si sente sufficientemente apprezzata dal partner o crede di non ricevere adeguata considerazione ed importanza. Per soddisfare queste esigenze ripropone, senza rendersi conto, quelle strategie che nell'infanzia erano state funzionali, ma che nel contesto presente risultano inappropriate.
Alla base dei giochi psicologici possono esserci molteplici ragioni:
·        Ottenere attenzione e importanza: attraverso il gioco si diventa riconoscibili agli occhi del partner, che è costretto a dedicare attenzione, ascoltando, aiutando, rispondendo alle critiche.
·        Garantire il senso di sicurezza: il gioco essendo ripetitivo consente di strutturare la vita di coppia in schemi relazionali prevedibili, offrendo sicurezza a entrambi i partner.
·        Evitare l'intimità: il gioco permette di mantenere rapporti emotivamente intensi, senza svelare all'altro la propria vulnerabilità.
·        Giustificare un attacco contro il partner, cui addossare la responsabilità dei propri stati d'animo negativi o attribuirgli la colpa di eventi che potrebbero intaccare la propria autostima.
·        Confermare le proprie convinzioni su se stessi, elaborate nel corso della propria storia personale, cercando verifiche su quello che la persona pensa di essere o che gli altri pensano che sia.
Pertanto si gioca nel tentativo di soddisfare le proprie esigenze emotive, ma poiché nel gioco sono riproposte strategie superate, i reali bisogni rimangono insoddisfatti. 

Sabrina D'Amanti afferma: «La mia personale ricerca mi porta alla conclusione che il fattore organizzativo intorno a cui un gioco si struttura (cioè prende la sua forma e caratteristica) sia dato dalle convinzioni di copione e dal corrispettivo obiettivo di smentirle, al fine di ricavare l'illusoria sensazione di aver disattivato l'effetto doloroso che esse producono. I giochi si svolgono fuori dalla consapevolezza Adulta, come vari autori hanno evidenziato, poiché le convinzioni di copione che lo motivano sono inconsce, così come il bisogno ad esse correlato di smentirle.»[2]
Secondo E. Berne l'educazione è il processo durante il quale il bambino impara, attraverso processi di adattamento, a scegliere quali saranno i ruoli e i giochi che attiverà nelle sue relazioni. Una volta che il gioco si è strutturato in uno schema fisso di stimolo e risposta, l'origine della nascita o del perché della scelta di un determinato gioco, si dimenticano.
Questo rende difficile recuperare, se non attraverso adeguati strumenti quali il counseling o la Terapia, la genesi, le decisioni, le scelte che hanno portato alla scelta del gioco da giocare.
        
Il primo passo per porre fine ai giochi, consiste nella consapevolezza dei giochi e del ruolo ricoperto all'interno di questi. Dinnanzi a un'interazione in cui si pensa “È successo di nuovo!”, è utile cercare di identificare quali sequenze di comportamenti tendono a ripetersi e come si contribuisce alla loro realizzazione. Successivamente è importante la scelta di rifiuto/interruzione del gioco.
Quando si riconosce che una determinata dinamica corrisponde a un gioco, è possibile rifiutarsi di entrare in quello proposto dall'altro, fornendo una risposta diversa rispetto alle aspettative di questi (non agganciando l'anello). Mentre, quando s'intuisce di aver innescato il meccanismo, questo può essere interrotto, attivando comportamenti diversi da quelli consueti, che consentano di retrocedere dall'escalation. Ad esempio nel gioco «Perché non... Sì ma...», il giocatore che offe consigli può fornire una risposta del tipo: “Non so cos'altro dirti!”. Mentre il secondo giocatore può uscire dal ruolo ricoperto, con una reazione del tipo: “Grazie, rifletterò su quello che mi hai suggerito”.
È ovvio che un gioco non si smonta immediatamente, ma è necessario perseverare nelle nuove risposte ed essere realmente motivati a interrompere la dinamica.
Mentre i giochi sono una fuga dall’intimità, decidere di smettere di giocare fa crescere l’intimità, anche quando ancora non è stato del tutto disinnescato. Il partner che per primo si accorge del gioco, ne parla all’altro e attraverso una buona dose di ironia, smonta la tensione che, invece di essere indirizzata al litigio, diventa motivo di intimità.
Il primo obiettivo del counselor o del terapeuta, è quello di rendere la persona consapevole del tipo di gioco che tende ad instaurare e chiarire i meccanismi che involontariamente attiva. La consapevolezza, permette di controllare il circolo vizioso del gioco e di attribuire un significato ai comportamenti di rifiuto, rabbia, aggressività che si manifestano nelle relazioni affettive.
Il secondo obiettivo è quello di sbloccare il meccanismo ripetitivo del gioco: inizialmente accompagnando la persona a recuperare lo "spazio di riflessione" soppresso dalle reazioni automatiche. Poi incoraggiandola a sperimentare comportamenti "alternativi", appropriati alla situazione presente, con cui sostituire quelli consueti e disfunzionali. In questo modo, diventa possibile gestire la dinamica del gioco, evitando di agganciare quello proposto dall’altro e bloccando il fluire del proprio.
Infine, è necessario disattivare il "tornaconto" negativo. Il gioco psicologico è finalizzato a ottenere riconoscimenti, ma poiché vengono utilizzate strategie inadeguate, l'esito è diverso rispetto alle aspettative. L'eliminazione della ricompensa negativa implica l'utilizzo di modalità più esplicite e dirette per manifestare le proprie richieste emotive.
La vita adulta, in quanto tale, rende disponibile un vasto repertorio di risorse, cui la persona può attingere per esprimere bisogni e sentimenti, tendendo conto dell'esperienza individuale dell'altro e della situazione contingente.
La liberazione dai giochi psicologici permette di costruire un rapporto affettivo basato su aspettative realistiche e sentimenti di reciprocità, quali punti di partenza per una relazione gratificante ed arricchente per entrambi i partner.



[1] E.BERNE, Ciao!...E poi?. La psicologia del destino umano, ed. Tascabili Bompiani, 2008,      Milano,p.150
[2] S. D'AMANTI, I giochi dell'Analisi Transazionale, ed. Xenia, 2011, Milano, pag. 24