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Eric Berne, il padre dell’Analisi
Transazionale, ha definito questa
dinamica con un termine preciso: GIOCO. Non per l’aspetto ludico, ma per
il fatto che in queste situazioni ogni partecipante riveste un ruolo preciso,
sta a delle regole, o manovre, precise e tende a raggiungere sempre lo stesso
scopo. Egli afferma che « Si gioca, dunque, nel tentativo di vedere soddisfatte le proprie
necessità sociali fondamentali ma, poiché chi gioca rimette in atto quegli
schemi disfunzionali relazionali appresi nel corso del proprio sviluppo
infantile, tali bisogni, così come nel passato, rimangono insoddisfatti.»[1]
È facile capire
che si sta giocando, quando ci si accorge che le varie relazioni di coppia
finiscono tutte allo stesso modo, quando ci si innamora sempre della stessa
tipologia di persone, quando i litigi continuano sempre seguendo lo stesso
clichè, quando gestiamo i conflitti sempre nello stesso modo e alla fine ci lasciano
sempre la stessa emozione, e così via… tutto questo perché i giochi sono
ripetitivi.
La persona ricorre al gioco quando
non si sente sufficientemente apprezzata dal partner o crede di non ricevere
adeguata considerazione ed importanza. Per soddisfare queste esigenze
ripropone, senza rendersi conto, quelle strategie che nell'infanzia erano state
funzionali, ma che nel contesto presente risultano inappropriate.
Alla base dei giochi psicologici possono esserci molteplici
ragioni:
·
Ottenere attenzione e importanza:
attraverso il gioco si diventa riconoscibili agli occhi del partner, che è
costretto a dedicare attenzione, ascoltando, aiutando, rispondendo alle
critiche.
·
Garantire il senso di sicurezza: il
gioco essendo ripetitivo consente di strutturare la vita di coppia in schemi
relazionali prevedibili, offrendo sicurezza a entrambi i partner.
·
Evitare l'intimità: il gioco permette
di mantenere rapporti emotivamente intensi, senza svelare all'altro la propria
vulnerabilità.
·
Giustificare un attacco contro il partner,
cui addossare la responsabilità dei propri stati d'animo negativi o
attribuirgli la colpa di eventi che potrebbero intaccare la propria autostima.
·
Confermare le proprie convinzioni su se
stessi, elaborate nel corso della propria storia personale, cercando verifiche
su quello che la persona pensa di essere o che gli altri pensano che sia.
Pertanto si gioca nel
tentativo di soddisfare le proprie esigenze emotive, ma poiché nel gioco sono
riproposte strategie superate, i reali bisogni rimangono insoddisfatti.
Sabrina D'Amanti afferma: «La mia personale ricerca mi porta alla conclusione che il fattore organizzativo intorno a cui un gioco si struttura (cioè prende la sua forma e caratteristica) sia dato dalle convinzioni di copione e dal corrispettivo obiettivo di smentirle, al fine di ricavare l'illusoria sensazione di aver disattivato l'effetto doloroso che esse producono. I giochi si svolgono fuori dalla consapevolezza Adulta, come vari autori hanno evidenziato, poiché le convinzioni di copione che lo motivano sono inconsce, così come il bisogno ad esse correlato di smentirle.»[2]
Sabrina D'Amanti afferma: «La mia personale ricerca mi porta alla conclusione che il fattore organizzativo intorno a cui un gioco si struttura (cioè prende la sua forma e caratteristica) sia dato dalle convinzioni di copione e dal corrispettivo obiettivo di smentirle, al fine di ricavare l'illusoria sensazione di aver disattivato l'effetto doloroso che esse producono. I giochi si svolgono fuori dalla consapevolezza Adulta, come vari autori hanno evidenziato, poiché le convinzioni di copione che lo motivano sono inconsce, così come il bisogno ad esse correlato di smentirle.»[2]
Secondo E. Berne l'educazione è il
processo durante il quale il bambino impara, attraverso processi di
adattamento, a scegliere quali saranno i ruoli e i giochi che attiverà nelle
sue relazioni. Una volta che il gioco si è strutturato in uno schema fisso di
stimolo e risposta, l'origine della nascita o del perché della scelta di un determinato
gioco, si dimenticano.
Questo rende difficile recuperare, se
non attraverso adeguati strumenti quali il counseling o la Terapia, la genesi,
le decisioni, le scelte che hanno portato alla scelta del gioco da giocare.
Il primo passo per porre fine ai
giochi, consiste nella consapevolezza dei giochi e del ruolo ricoperto
all'interno di questi. Dinnanzi a un'interazione in cui si pensa “È successo di
nuovo!”, è utile cercare di identificare quali sequenze di comportamenti
tendono a ripetersi e come si contribuisce alla loro realizzazione.
Successivamente è importante la scelta di rifiuto/interruzione del gioco.
Quando si riconosce che una
determinata dinamica corrisponde a un gioco, è possibile rifiutarsi di entrare
in quello proposto dall'altro, fornendo una risposta diversa rispetto alle
aspettative di questi (non agganciando l'anello). Mentre, quando s'intuisce di
aver innescato il meccanismo, questo può essere interrotto, attivando
comportamenti diversi da quelli consueti, che consentano di retrocedere
dall'escalation. Ad esempio nel gioco «Perché non... Sì ma...», il giocatore
che offe consigli può fornire una risposta del tipo: “Non so cos'altro dirti!”.
Mentre il secondo giocatore può uscire dal ruolo ricoperto, con una reazione
del tipo: “Grazie, rifletterò su quello che mi hai suggerito”.
È ovvio che un gioco non si smonta
immediatamente, ma è necessario perseverare nelle nuove risposte ed essere
realmente motivati a interrompere la dinamica.
Mentre i giochi sono una fuga
dall’intimità, decidere di smettere di giocare fa crescere l’intimità, anche
quando ancora non è stato del tutto disinnescato. Il partner che per primo si
accorge del gioco, ne parla all’altro e attraverso una buona dose di ironia,
smonta la tensione che, invece di essere indirizzata al litigio, diventa motivo
di intimità.
Il primo obiettivo del counselor o del terapeuta, è
quello di rendere la persona consapevole del tipo di gioco che tende ad instaurare
e chiarire i meccanismi che involontariamente attiva. La consapevolezza, permette di controllare il circolo vizioso del
gioco e di attribuire un significato ai comportamenti di rifiuto, rabbia,
aggressività che si manifestano nelle relazioni affettive.
Il secondo obiettivo è quello di sbloccare il meccanismo ripetitivo del gioco: inizialmente
accompagnando la persona a recuperare lo "spazio di riflessione"
soppresso dalle reazioni automatiche. Poi incoraggiandola a sperimentare comportamenti "alternativi",
appropriati alla situazione presente, con cui sostituire quelli consueti e
disfunzionali. In questo modo, diventa possibile gestire la dinamica del gioco,
evitando di agganciare quello proposto dall’altro e bloccando il fluire del
proprio.
Infine, è necessario disattivare
il "tornaconto" negativo. Il gioco psicologico è finalizzato a
ottenere riconoscimenti, ma poiché vengono utilizzate strategie inadeguate,
l'esito è diverso rispetto alle aspettative. L'eliminazione della ricompensa
negativa implica l'utilizzo di modalità più esplicite e dirette per manifestare
le proprie richieste emotive.
La vita adulta, in quanto tale, rende
disponibile un vasto repertorio di risorse, cui la persona può attingere per
esprimere bisogni e sentimenti, tendendo conto dell'esperienza individuale
dell'altro e della situazione contingente.
La liberazione dai giochi psicologici permette di costruire un rapporto
affettivo basato su aspettative realistiche e sentimenti di reciprocità, quali
punti di partenza per una relazione gratificante ed arricchente per entrambi i
partner.
[1] E.BERNE, Ciao!...E poi?. La psicologia del destino umano,
ed. Tascabili Bompiani, 2008, Milano,p.150
[2] S. D'AMANTI, I giochi dell'Analisi
Transazionale, ed. Xenia, 2011, Milano, pag. 24
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